L'esame di maturità
In via Torino ogni abitazione sembrava ancora avvolta nel sonno, ma i galli dei piccoli pollai domestici erano svegli già da quando il sole era comparso nel cielo e salutavano il nuovo giorno con il loro stridulo canto. In quel vicolo cieco di periferia erano ammucchiate una ventina di case, tra le quali se ne contavano cinque disabitate da qualche tempo e solo tre abitate da giovani famiglie; le restanti costruzioni erano occupate da vecchi coniugi, da qualche vedova oppure da anziani non sposati. Nel dedalo di quella stradina si potevano incontrare gatti domestici alla ricerca di qualche animaletto da cacciare, una miriade di cagnolini che si rincorrevano tra loro e qualche gallina o coniglio usciti dalla propria gabbia e intenti a mangiucchiare l'erba che cresceva nel ciglio della strada.
Al numero 7 di via Torino abitava la famiglia Anedda, composta dal signor Antonio, da sua moglie Maria e dalle loro due figlie. I coniugi Anedda possedevano un cane di piccola taglia che non la smetteva di sotterrare e disotterrare gli ossi dalle aiuole in cui la povera signora Maria cercava di piantare graziosi fiorellini comprati al mercato del giovedì. E non era soltanto il cane a dare del filo da torcere alla moglie di Antonio, perché il giardino era devastato anche dalla tartaruga che la sorella di Maria le aveva regalato cinque anni prima.
Antonio Anedda era muratore nella ditta di suo fratello Paolo e si alzava sempre di buon mattino per recarsi al lavoro. Pranzava insieme ai suoi colleghi, seduto su un blocchetto di cemento o sul ponte di tavoloni, e poi dopo pranzo continuava a lavorare per fare ritorno a casa propria soltanto la sera. Era un uomo non molto alto, dal fisico robusto e dalla carnagione chiara. Sua moglie Maria era una donna di rara bellezza, con i capelli neri, lunghi e ondulati e un incarnato chiaro che metteva in risalto i suoi occhi verdi.
I coniugi Anedda erano orgogliosi di essere una famiglia semplice, unita e di avere due figlie beneducate e affettuose, in particolar modo la maggiore, Livia. La ragazza aveva terminato il Liceo proprio quell'anno e si apprestava, la mattina di quel lunedì di giugno in cui ha inizio la nostra storia, a sostenere la prima prova scritta dell'esame di maturità. Non aveva chiuso occhio per tutta la notte a causa dell'ansia ed era crollata dalla stanchezza soltanto alle cinque del mattino. Alle sei la signora Maria bussò alla porta della camera, sperando di trovare Livia già in piedi pronta per fare colazione, ma entrando nella stanza vide che era sveglia Laura. Allora disse alla figlia minore di andare in cucina a preparare la colazione, mentre lei avrebbe buttato giù dal letto Livia.
E ci riuscì quasi subito. Laura sentì un forte sbadiglio seguito da un «Cosa? Sono già le sei?» e vide la sorella scendere di corsa le scale che portavano alle camere da letto. «Accompagnami tu, mamma, per favore! Sono troppo agitata!» disse Livia e si rifugiò in bagno per farsi la doccia.
Livia Anedda aveva il viso ovale dalla fronte bassa e dagli occhi scuri, incorniciato da lunghi capelli castano scuro. Sua sorella Laura era molto simile a lei, ma aveva gli occhi verdi come sua madre e doveva frequentare la quarta Liceo.
Quando la signora Maria mise in moto la macchina per accompagnare l'agitatissima Livia a scuola. erano le otto meno venti e né lei, né le sue figlie notarono la bellissima e maestosa aquila che era appollaiata nel ramo della quercia che avevano in giardino, vicino al cancello.
Non era strano vedere un'aquila che volava sopra il vicolo dove abitava Livia dato che il paese confinava in periferia con il bosco, ma era insolito vederne una appollaiata su un albero di un giardino e ancor più strano vedere un simile rapace con un sacchetto di cuoio, contenente chissà cosa, legato a una zampa.
Alle otto e mezzo a Livia e ai suoi compagni fu permesso l'ingresso a scuola e alcune professoresse guidarono gli studenti delle quattro sezioni in altrettante classi. Il cancello della scuola fu chiuso e la presidente di commissione portò le buste con le tracce del tema di maturità di ogni classe. L'esame era iniziato. Gli studenti lessero tutti i titoli e armati di dizionario cominciarono a scrivere e a riempire i fogli protocollo con le loro considerazioni e non si accorsero che il tempo scorreva velocemente.
La signora Maria si era accorta invece, una volta tornata a casa con l'altra figlia, di un involucro di cuoio legato alla maniglia del cancello. Lo prese e lo infilò cautamente nella borsetta stando attenta che Laura non notasse niente.
(Tratto da R. Serra, "I Guerrieri di Nur", pp. 12-14, edito da "La Riflessione", 2009)
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