Capitolo 1

 

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Ho sempre pensato che la felicità sia un’invenzione utopica, un concetto che l’Uomo ha inventato per cercare di colmare quel vuoto che si sente dentro nei momenti in cui gli obiettivi che si era prefissato crollano. Non sono mai stato bravo a cadere. Luca lo sfigato, mi chiamavano così alle medie. Mi sono sempre fatto male, non ho accusato i colpi che mi davano nel ring della vita e i lividi che ne susseguivano erano troppo violenti per la mia anima. Non sono mai stato bravo a capire cosa volevo davvero. Sono quello che si può definire persona introversa o, in alcuni contesti, persino borderline. 

Ho un passato da studente di architettura perché ero convinto che il talento nel disegno tecnico e la passione per gli edifici e il verde pubblico potessero bastare a fare di me un futuro architetto, ma appena superato il primo semestre di esami mi resi conto che quell’obiettivo era svanito, disilluso dalla fatica e dai compromessi del mondo accademico. Così mi ritirai dagli studi. Provai a seguire la mia passione per i gialli e le serie Tv poliziesche prendendo in considerazione la strada dei concorsi ministeriali per entrare in Polizia e nell’Arma dei Carabinieri, ma non passai la selezione delle prove di accesso a risposta multipla su materie come la logica matematica, logica meccanica, comprensione del testo e inglese. Arrivai al punteggio limite per non essere ammessi, appena mezzo punto sotto chi era riuscito per puro caso a indovinare qualche risposta più di me e garantirsi l’accesso alle altre prove. Un’altra porta si era chiusa. Amareggiato, mi indirizzai per un po’, e invano, verso gli annunci di lavoro, inviando la mia disponibilità verso qualunque tipo di impiego non richiedesse una laurea tra i requisiti. A ventitré anni abito ancora nella casa dei miei genitori e sinceramente in alcuni momenti peggiori di altri mi sento un fallito anche per questo motivo, oltre che per la mia incapacità di portare avanti una relazione a lungo termine. Un nuovo impiego mi permetterebbe di provvedere alla mia autonomia da quella famiglia che talvolta, in momenti di difficoltà economica o semplice malumore, mi fa pesare il fatto di abitare nella stessa casa che mi ha visto crescere. La malattia di mia madre, poi, non ha certo contribuito a migliorare i continui scontri, che anzi ultimamente sembrano essersi accentuati. Ma non potevo e non posso certo incolparla per quel nodulo al seno che, in meno di un mese dalla mammografia di controllo, è sfociato in un tumore, né posso darle torto se quella notizia giunta tra capo e collo l’ha trasformata in una donna di cinquantadue anni, già afflitta dalla recente condizione di menopausa, incapace oramai di vedere o trovare la felicità. L’umore nero di mia madre si riflette come in uno specchio ingranditore nel comportamento di mio padre, che non vede l’ora di andare in pensione, ma ha ancora oltre dieci anni di lavoro ai fini contributivi. A questo si aggiunge la possibilità di fallimento della ditta di trapani di cui è dipendente da ben trent’anni. La crisi economica in cui versa il Paese non fa altro che strozzarci con il cappio delle tasse e con la prospettiva di finire in un vicolo cieco se si cerca un lavoro pubblico, ormai diventato posto elitario nell’immaginario collettivo e affogato di burocrazia nella realtà quotidiana dei dipendenti considerati fortunati nell’opinione popolare. Io, che tasse vere e importanti non ne ho mai pagate -se tolgo il bollo e l’assicurazione auto, perché quelli riesco a pagarli di tasca mia- non posso certo dichiararmi capace di sfidare i tempi e innalzarmi quale paladino di giustizia e cambiamento sociale. Direi che sono rimasto a crogiolarmi nel mio piccolo e schifoso mondo di autocommiserazione, dopo ogni fallimento personale, finché il mio migliore amico Giacomo non mi ha suggerito di controllare gli annunci di lavoro ieri notte. Le mie stanche e sfiduciate dita hanno così compiuto le stesse mosse fatte mesi prima per inoltrare il mio curriculum a qualche annuncio qua e là.

Stamattina alle 6.30 la notifica dell’email nel mio cellulare mi ha svegliato. Ha risposto un tizio, che dice di volermi assumere oggi stesso, spiegandomi, come già anticipava nell’annuncio, di offrire un impiego semplice, ma ben retribuito: dovrò accompagnare il mio datore di lavoro, mezzo auto fornita da questi, ovunque egli richieda e senza fare domande. Talvolta, potrebbe mandarmi a fare commissioni per lui, come ritirare abiti in lavanderia o simili. Essendo una persona introversa non avrei potuto chiedere di meglio in questo periodo della mia vita. Il capo mi chiede come divisa da lavoro pantaloni eleganti e una camicia bianca o azzurra e il mio armadio contiene quegli abiti per fortuna. Mentre mi sistemo la barba con il rasoio elettrico, mi chiedo se questo lavoro porterà la mia vita in una direzione completamente nuova. Dopo la doccia mattutina mi vesto, inspirando ed espirando a fondo. La mia autostima è ancora vacillante, ma la speranza di un cambiamento nella mia routine quotidiana sembra darmi quella spinta necessaria a guidare fino alla posizione condivisa dal mio datore di lavoro su WhatsApp.

Arrivo presto al luogo indicato e finalmente stringo la mano al mio capo e firmo il contratto di lavoro per 1.500 euro lordi al mese. Da oggi sono l’autista privato del notaio Enrico Marchi. Mi mostra l’auto di servizio e il primo pensiero è di saltare dalla gioia e fiondarmi al posto di guida.

-          Una Bugatti? – Esclamo sorpreso.

-          Ovviamente – Dice il capo con un sorriso soddisfatto. – Che pensavi, ragazzo? – Dice da sotto i baffi scuri e curati. - Pensavi forse che ti avrei fatto guidare un vecchio ciarpame? Affatto! Questo gioiellino mi è costato parecchio, ma capisci bene che nella società devo distinguermi non solo per il mio lavoro o per il mio cognome. Devo legare questi due a un simbolo indiscutibile di potere. – Afferma, mentre si sistema la cravatta firmata. La sua aria distinta riesce a mettermi a mio agio e a tranquillizzarmi. Mi chiede di lasciare la mia auto al parcheggio pubblico vicino al palazzo in cui si trova il suo studio e di portarlo con la Bugatti dal suo dentista. Imposto il navigatore e in circa tredici minuti parcheggio perfettamente nello stallo di sosta. L’auto è morbidissima. Chiedo al notaio se devo aprirgli lo sportello e mi dice che sarebbe meglio, sempre per quella vicenda dello status quo. Scendo dal posto di guida e oltrepasso il cofano della Bugatti dirigendomi verso lo sportello passeggero, lato destro. Mi sento una specie di body guard in questo momento. Apro lo sportello, indietreggiando di lato e permettendo così al mio capo di uscire tranquillamente dall’abitacolo. Il modo in cui poggia il piede destro sull’asfalto, l’eleganza con cui si raddrizza in piedi e si sistema la giacca e la cravatta mi lasciano senza parole. Sembra uno di quei CEO che si vedono nelle metropoli delle serie TV. Si schiarisce la voce e mi indica il sedile posteriore dove si trovava seduto poco prima. La valigetta. Devo prendergliela io? Potrebbe prendersela da solo, anzi perché non l’ha presa mentre scendeva dall’auto? Il notaio inarca un sopracciglio, con un’aria decisa e io mi ritrovo a eseguire quel muto ordine alla stregua di un lacchè.

-          Eccellente, Luca. Ci metterò circa un’ora, perciò vai in lavanderia a ritirare una camicia e una cravatta. L’indirizzo è già memorizzato nel navigatore. Fatti trovare qui alle 11 precise. – Dice, prima di attraversare la strada ed entrare in un palazzo di tre piani. Io risalgo in auto, accendo lasciando in folle e cerco nel navigatore GPS la mia prossima destinazione. Per fortuna si trova a venti minuti da dove mi trovo adesso. 

Arrivato al negozio, mi accoglie dietro un bancone in marmo una giovane donna. Avrà ad occhio trentacinque anni, indossa un tailleur rosso e ha i capelli scuri.

-          Buongiorno! In cosa posso esserle utile? – Mi chiede in un italiano dall’accento straniero. Ha qualcosa di raffinato, ma non riesco a capire cosa me lo faccia pensare.

-          Buongiorno, devo ritirare una camicia e una cravatta del notaio Marchi. – Dico con tono deciso. La donna annuisce ed esce da dietro il bancone per dirigersi in una sala separata da una tenda rossa. Il contrasto della stoffa con l’interno in legno del locale rende la lavanderia simile a un hotel di lusso. Nemmeno il tempo di guardarmi attorno, che la tipa è già di ritorno con gli abiti del capo. Sono passati quasi due minuti da quando ho messo piede là dentro. Saluto e sto per uscire, quando la commessa mi dice che ci rivedremo presto. Immagino che il notaio porti tutti i suoi abiti in quel negozio. Non commento ed esco.

Ora che ci penso, potrei tornare direttamente davanti al palazzo del dentista e andare a bermi un caffè nel bar che ho visto lì accanto. Manca ancora una mezz’ora prima che il notaio finisca la sua seduta dal dentista. Il bar va benone, è pulito, con personale cortese e il loro caffè è di mio gusto. Mentre aspetto il notaio in auto, percorro il palazzo del dentista con lo sguardo e oltre le lenti dei miei occhiali da sole vedo una decina di persone affacciate in una delle grandi finestre del primo piano. Non ha l’aria di uno studio dentistico, quello dovrebbe essere al terzo piano a giudicare dalle tipiche tende lamellate. Il notaio finalmente arriva ed entra nell’abitacolo. Lo porto nel suo studio e mi siedo nella sala d’attesa, in attesa di un suo prossimo ordine. Sfoglio alcune riviste che si trovano nel tavolino, mentre il notaio riceve due clienti. Questo lavoro è una pacchia! Non devo far altro che leggere, se voglio, e attendere. Solo attendere. Mi sembra una buona cosa, considerati i millecinquecento euro lordi che avrò il mese prossimo nel mio conto in banca. Forse mi annoierò, ma non rischio niente. È un po’ come un lavoro d’ufficio senza lo stress della burocrazia.

Mentre sono perso tra questi pensieri e navigo dal mio cellulare, il notaio esce dallo studio, saluta i suoi clienti e mi chiama. Mi chiede di andare con la Bugatti allo studio del dentista perché gli hanno appena telefonato dicendogli di andare a ritirare la cartella e la protesi e di portargliele là in studio. Mi mette in mano mille euro in biglietti da cinquecento - mai toccati dal vivo prima di ora - e mi dice di pagare il dentista. Che accidenti di protesi gli ha fatto per avere un costo del genere? Annuisco e vado allo studio. Non devo fare domande. Forse il dentista di un notaio si fa pagare in base allo stipendio di ogni cliente.

Arrivato al terzo piano del palazzo, ritiro quanto mi viene dato da quella che probabilmente è l’assistente del dentista e mi dirigo nuovamente giù dalla rampa di scale. Una ragazza dai capelli castani blocca completamente il passaggio. È seduta al centro del gradino e non posso scavalcarla. Sembra stia piangendo, le dico che dovrei passare, ma non si muove. Tra un suo singhiozzo e l’altro, sento della musica in sottofondo. Deve avere gli auricolari, ecco perché non si sposta. Mi chino verso di lei per toccarle un braccio e fare in modo che si giri. Sussulta spaventata e mi guarda con gli occhi sgranati e illuminati dal pianto. I suoi occhi sono stupendi.


                

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