Racconto contro il razzismo

 In mezzo alla foresta non guardare il singolo albero

 


È l'ultima ora di lezione per gli studenti di uno dei tanti licei di Cagliari. Il professore guarda impaziente l'orologio e poi rivolge l'ultima domanda alla studentessa sotto interrogazione.

«Allora, Sara, sai darmi la tua interpretazione del dipinto di Gauguin?», chiede Mastrangeli, esasperato. Non ne può più di quella classe di quindicenni interessati a chattare di nascosto e annoiati dalla sua materia. È stufo e sogna il trasferimento in un altro istituto, se ne infischia della didattica e del dialogo tra lui e quegli adolescenti che gli sembrano così lontani dalla realtà. Non ero così alla loro età, Santo Cielo, pensa. Sara guarda con aria piatta prima lui e poi il dipinto riprodotto a pagina 56 del libro di storia dell'arte. Sbuffa e poi si gira verso i compagni, che ridacchiano. Qualcuno lancia palline ed aerei di carta verso la cattedra, mentre Mastrangeli finge di non accorgersi del misero controllo che ha su quei venti alunni.

«Io credo...», comincia a dire Sara. «Credo che non me ne importa nulla se Gauguin ha dipinto queste donne straniere e si chiede da dove veniamo e dove andiamo! Non so capire me stessa, quindi perché dovrei capire gli stranieri che sono così diversi da noi?».

La risposta di Sara fa infuriare Mastrangeli, che la rimanda a posto con un 5 sul registro. Sara sbuffa e in quel momento la campanella annuncia la libertà; la classe si svuota in fretta per riversarsi nel cortile e in strada. Sara si allontana, insieme a un gruppetto di coetanee, e si dirige verso una delle tante fermate dei ctm. Il pullman la porta nel Largo Carlo Felice, dove la ragazzina scende e ci vede.

Fatima continua a raccontarmi in francese il viaggio per mare intrapreso qualche mese prima, alla ricerca di un futuro migliore per lei e per la sua famiglia. È concentrata nel non tralasciare nessun dettaglio e non bada ai cagliaritani che ci osservano, mentre io l'ascolto seduta accanto a lei in una panchina del Largo Carlo Felice. Una passante, ingioiellata quanto sant'Efisio il primo maggio, ci guarda con disprezzo e si allontana in fretta. Squadrandola non faccio a meno di sorridere amaramente; di sicuro appartiene a qualche famiglia benestante e non ha mai faticato per campare. Sposto lo sguardo sulle iridi nocciola di Fatima, che mi raccontano parte delle cose che ha vissuto. Nei suoi occhi leggo la sofferenza e l'orrore della guerra, ma anche l'amore di una moglie e di una madre. Nel marciapiede davanti a noi si ferma una ragazzina, che indossa jeans strappati e un maglioncino giallo, e guarda incuriosita Fatima. Noto che sta osservando l'abito indossato dalla donna, dai colori vivaci che mettono in risalto la sua bellezza. La ragazzina si fa coraggio e mi chiede se la donna è francese. Traduco la domanda della ragazza a Fatima, che sorride e mi dice cosa riferirle. Così traduco testualmente. «Mi chiamo Fatima e ho studiato francese in Tunisia, all'università, dove mi sono laureata in architettura e dove ho conosciuto mio marito Karim. Io sono una donna Swazi, per questo il mio francese è ancora elementare.». La ragazzina chiede cosa sono gli Swazi, perché lei non ne ha mai sentito parlare; a scuola hanno studiato solo la Libia, l'Algeria e qualche altra nazione colonizzata dagli Europei. Fatima sorride con una semplicità disarmante e comincia a parlare della sua gente. «Il popolo Swazi vive nell'Africa del sud e siamo governati da un re. Nel Settento ci furono molte guerre nel mio paese, tra i miei antenati e alcuni europei arrivati a conquistare le nostre terre per appropriarsi dell'oro, dell'avorio e delle persone, che venivano vendute come schiavi. Uno di noi si ribellò e fondò un regno per unificare tutti i popoli e per vivere in pace con i coloni olandesi. Così nacque lo stato dove sono nata». La ragazzina ascolta rapita le mie parole ed esclama: «Che strano, sembra un romanzo!». Io traduco per Fatima, che scuote la testa e dice: «Voi non conoscete le nostre culture. Per voi siamo tutti uguali, nell'aspetto e nella provenienza, e per questo pensate che ciascuno di noi sia musulmano, possibilmente estremista, e parli arabo». Mi sento colpita da quelle parole. È vero, anche io la pensavo così un tempo, prima di rendermi conto che il dialogo con l'altro fa crollare mille barriere e polverizza opinioni diffuse. Traduco per la ragazzina e alla fine le chiedo come si chiama. Mi rendo conto che qualcosa sta cambiando nello sguardo della ragazzina, che ha detto di chiamarsi Sara. Fatima dice che il nome della ragazzina significa principessa, mentre il suo significa colei che svezza i bambini, quindi donna. C'è qualcosa negli occhi di Sara e Fatima lo ha notato. Mi dice, ridendo, che la ragazzina sta imparando a vedere la foresta e non solo un albero, ma io non capisco.

«Ma tuo marito ti tratta bene o ti picchia?», chiede Sara, con una certa pena nello sguardo. Per lei Fatima è ancora la straniera di colore, forse di fede musulmana che è prigioniera in casa sua e deve obbedire a un marito che la comanda.

«Mio marito mi tratta come la sua donna, come sua pari. Se fosse cattivo con me potrei divorziare. Ma fortunatamente noi ci amiamo. Guarda, sta arrivando», dice, indicando alla sua destra. Un uomo alto, vestito con semplici jeans e una polo percorre il marciapiede nella nostra direzione, tenendo per mano un bambino di circa quattro anni e in braccio l'altro figlio più o meno  di  due. L'uomo  saluta  la  moglie  e  poi  ci  osserva imbarazzato. Il bambino più grande osserva stupito i sottili capelli castani e lisci di Sara e i suoi occhi verdi. Poi Fatima lo prende in braccio e ci presenta suo marito e i suoi figli. L'imbarazzo di Karim scompare appena la moglie gli spiega in francese che ci stava raccontando il loro viaggio e la loro cultura e lui si presenta in italiano, ringraziandoci per ascoltare la loro storia. Nel frattempo, il bambino che Fatima teneva in braccio ha afferrato una ciocca dei capelli di Sara e la ragazzina ride. «Sai, anche io ho un fratellino piccolo e anche lui mi tira i capelli...sei così carino, sembri proprio uguale a Matteo», le sento dire.

Parliamo ancora, Karim con il suo italiano stentato dal forte accento straniero, Fatima in francese dall'accento che ci dice essere afrikaans, Sara in un italiano dal marcato accento sardo ed io in italiano e in francese, non so se con accento oppure no. Parliamo di tutto e i loro racconti si sommano a quelli miei e di Sara. Ci ritroviamo a parlare lingue diverse, ma che raccontano di esperienze comuni. E mentre parliamo ci ritroviamo circondati da un capannello di gente, straniera e non, che ci osserva curioso. In quel momento, mi accorgo che Sara osserva pensierosa ogni persona attorno a noi ed infine esclama: «Ecco cosa voleva dire Fatima prima: siamo noi gli alberi nella foresta. Siamo tutti uguali. Facciamo le stesse cose ovunque nel mondo: loro sono noi e noi loro. Perché nessuno lo capisce che siamo tutti esseri umani e che per questo siamo tutti uguali?».

«Perché non tutti vedono la foresta nella loro bellezza, ma guardano un singolo albero e ne notano i diffetti, applicandoli a tutti gli altri alberi e credono che tutta la foresta sia così», risponde Karim.

Rimaniamo così, immobili per alcuni secondi, ad osservare le altre persone attorno a noi e a sentirci parte di quella foresta umana. 

 


Ringrazio tantissimo la bravissima Lara Desogus per l'illustrazione!
Andate a visitare il suo sito web e il suo profilo instagram
Trovate il link del suo sito personale anche alla sezione
"Collaborazioni" e nella sidebar!




                            

2 commenti:

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